Cara Fine è una chiamata verso l’ignoto, è il tentativo di fare amicizia con quello che non conosciamo: la fine di noi stessi, delle nostre vite, la fine del mondo per come l’abbiamo abitato finora. La fine a cui scrivo lettere è l’Apocalissi – non solo quella collettiva, culturalmente e politicamente annunciata, ma anche la disgregazione del corpo, il lutto per chi amiamo e se ne va, la forza che ci abbandona di fronte al malessere, i resti della violenza subita e anche di quella esercitata.
Cara Fine è quello che sembra: le prime due parole di una lettera d’amore, d’amicizia, un atto di vicinanza alla Fine, personificata e non divinizzata. Una Fine compagna di viaggio.
Le lettere che scrivo alla Fine prendono, di volta in volta, forme diverse: filmati Super8, tessiture, disegni, testi, musiche, suoni, passeggiate. Nello spazio espositivo, questi elementi funzionano a contrasto e ad accumulo, aggiustano muri rotti e aprono nuove crepe, per rimanere sempre in un dialogo aperto con la mia, cara, Fine.